TITOLARITÀ E GESTIONE DELLA FARMACIA: LA DISCIPLINA DELLE INCOMPATIBILITÀ EX ARTT. 7 E 8 L. 362/1991 ALLA LUCE DEI RECENTI INTERVENTI GIURISPRUDENZIALI. – Avv. Marco Ottino – Avv. Stefano Simonetta
Come noto, la Legge annuale sulla Concorrenza e sul Mercato n. 124 del 2017, all’art. 1 co. 157, è intervenuta sulla formulazione degli artt. 7 e 8 della L. 362/1991 (“Norme di riordino del settore farmaceutico”) , includendo le società di capitali tra i soggetti che possono assumere la titolarità dell’esercizio di farmacie private e novellando il regime delle incompatibilità.
Il citato intervento normativo ha, sin da subito, generato alcune difficoltà interpretative, con particolare riferimento al terzo periodo dell’art. 7, comma 2, che reca una clausola di compatibilità di non agevole lettura ai fini dell’applicazione delle previsioni del successivo art. 8.
L’attuale art. 7 della L. 362/1991, “Titolarità e gestione della farmacia”, dispone che:
- Sono titolari dell’esercizio della farmacia privata le persone fisiche, in conformità alle disposizioni vigenti, le società di persone, le società di capitali e le società cooperative a responsabilità limitata.
- Le società di cui al comma 1 hanno come oggetto esclusivo la gestione di una farmacia. La partecipazione alle società di cui al comma 1 è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l’esercizio della professione medica. Alle società di cui al comma 1 si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 8.
Il successivo art. 8, comma 1 (rubricato “Gestione societaria: incompatibilità”), a sua volta, stabilisce che:
- La partecipazione alla società di cui all’art. 7 […] è incompatibile:
- nei casi di cui all’articolo 7, comma 2, secondo periodo.
- con la posizione di titolare, gestore provvisorio, direttore o collaboratore di altra farmacia;
- con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato.
L’incertezza dal combinato disposto delle norme citate ha inevitabilmente prodotto difficoltà nell’individuazione delle posizioni di incompatibilità, con atteggiamenti non univoci manifestati tanto da parte delle Pubbliche Amministrazioni coinvolte, quanto da parte degli organi giudiziari.
I dubbi interpretativi sono pervenuti sino al vaglio della Corte Costituzionale che, con un recente intervento, ha fissato un principio orientativo chiaro e condivisibile.
Con la sentenza n. 11 del 5 febbraio 2020, la Corte, nel ritenere infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 8, comma 1, lettera c), ha precisato che l’incompatibilità stabilita da tale norma “non è riferibile ai soci, di società di capitali titolari di farmacie, che si limitino ad acquisirne quote, senza essere ad alcun titolo coinvolti nella gestione della farmacia”.
In particolare, la Corte, partendo dall’analisi della stessa rubrica della norma, che espressamente collega “gestione” e “incompatibilità” e del sistema delle sanzioni disegnato per il caso in cui il soggetto incorra nella causa di incompatibilità, ha osservato che: “L’art. 8 della legge n. 362 del 1991, nel testo non modificato in parte qua dalla legge n. 124 del 2017, riferisce, infatti, l’incompatibilità (“con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato”), di cui alla denunciata lettera c) del suo comma 1, al soggetto che gestisca la farmacia (o che, in sede di sua assegnazione, ne risulti associato, o comunque coinvolto, nella gestione)”.
Sostiene sempre la Corte che l’art. 7, mentre riferisce senz’altro anche ai partecipanti a dette società le incompatibilità di cui al secondo periodo del suo comma 2, subordina invece ad una verifica di “compatibilità” l’applicazione delle disposizioni dell’articolo 8.
D’altro canto, osserva la Corte: “l’incompatibilità con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato, se era coerente con il precedente modello organizzativo – che, allo scopo di assicurare che la farmacia fosse comunque gestita e diretta da un farmacista, ne consentiva l’esercizio esclusivamente a società di persone composte da soci farmacisti abilitati, a garanzia dell’assoluta prevalenza dell’elemento professionale su quello imprenditoriale e commerciale -, coerente (quella incompatibilità) non lo è più nel contesto del nuovo quadro normativo di riferimento che emerge dalla citata legge n. 124 del 2017, che segna il definitivo passaggio da una impostazione professionale-tecnica della titolarità e gestione delle farmacie ad una impostazione economico-commerciale. Innovazione, quest’ultima, che si riflette appunto nel riconoscimento della possibilità che la titolarità nell’esercizio delle farmacie private sia acquisita, oltre che da persone fisiche, società di persone e società cooperative a responsabilità limitata, anche da società di capitali; e alla quale si raccorda la previsione che la partecipazione alla compagine sociale non sia più ora limitata ai soli farmacisti iscritti all’albo e in possesso dei requisiti di idoneità. Ragion per cui non è neppure più ora indispensabile una siffatta idoneità per la partecipazione al capitale della società, ma è piuttosto richiesta la qualità di farmacista per la sola direzione della farmacia: direzione che può, peraltro, essere rimessa anche ad un soggetto che non sia socio.
Essendo, dunque, consentita, nell’attuale nuovo assetto normativo, la titolarità di farmacie (private) in capo anche a società di capitali, di cui possono far parte anche soci non farmacisti, né in alcun modo coinvolti nella gestione della farmacia o della società, è conseguente che a tali soggetti, unicamente titolari di quote del capitale sociale (e non altrimenti vincolati alla gestione diretta da normative speciali), non sia pertanto più riferibile l’incompatibilità “con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico privato”, di cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 8 della legge n. 362 del 1991”.
La pronuncia della Corte Costituzionale genera, quindi, il seguente interrogativo.
Il principio definito dalla Corte stessa deve intendersi applicabile solamente alla fattispecie valutata dalla Corte – ovverosia per il caso di cui alla lettera c) del comma 1 dell’art. 8 (“con qualsiasi rapporto di lavoro pubblico e privato”) – oppure può avere una portata più ampia, con estensione della “verifica” di compatibilità anche alle condizioni di cui alla lettera b) del medesimo comma (“con la posizione di titolare, gestore provvisorio, direttore o collaboratore di altra farmacia”)?
In questo senso, il collaboratore di una farmacia (ad es. un magazziniere, oppure un farmacista dipendente) può acquisire una quota di società di capitali titolare di un’altra farmacia?
Applicando al caso concreto le coordinate ermeneutiche individuate dalla Corte Costituzionale e quindi operando la medesima “verifica” di compatibilità ivi prevista, la risposta sembra essere affermativa, a condizione che il collaboratore figuri come mero socio di capitale e non sia, pertanto, dotato di poteri gestori, né la sua qualifica sia tale da costituire un pericolo (concreto o presunto) per l’attività di rilievo pubblico che è gestita dalla società di cui ha acquisito la partecipazione, come lo sono per definizione normativa le condizioni sottratte alla verifica di compatibilità (V. art. 7 comma 2) secondo periodo: “La partecipazione alle società di cui al comma 1 è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l’esercizio della professione medica”).
Una lettura sistematica delle norme in esame fornisce un ulteriore argomento a favore dell’estensione del filtro di compatibilità alle condizioni sub b) del comma 1 dell’art. 8.
Infatti, la ratio che guida tali disposizioni normative deriva dal più generale principio di tutela della salute pubblica, in forza del quale il legislatore intende evitare che la partecipazione all’esercizio e/o alla gestione di una farmacia da parte di figure imprenditoriali portatrici dei propri interessi privati possa incidere negativamente o comunque porre in pericolo un’attività di rilievo pubblico qual è la dispensazione dei medicinali.
Nel momento in cui, pertanto, la “verifica” di compatibilità fornisce esito positivo, i principi che la normativa mira a salvaguardare risultano tutelati e al sicuro da aggressioni esterne e, dunque, il mero socio di capitale non ha possibilità alcuna di condizionare l’attività della farmacia, né di incidere negativamente o comunque porre in pericolo l’attività di dispensazione del farmaco.
A tal fine, non si può negare che il quadro normativo nella sua attuale formulazione consenta pacificamente al titolare e socio unico di una farmacia costituita in forma di impresa SrL unipersonale di essere titolare di quote di un’altra farmacia, senza incorrere in situazioni di incompatibilità. Quindi la titolarità, anche unanime, di quote di altra farmacia non è, secondo il legislatore, tout court fonte di pericolo presunto per la corretta e imparziale conduzione di altro esercizio farmaceutico, pur dallo stesso partecipato.
Proprio sulla base di tale principio di fonte legislativa, sarebbe illogico e contraddittorio impedire ad un farmacista collaboratore, o addirittura ad un semplice magazziniere di altra farmacia, la possibilità di ricoprire la qualifica di socio di mero capitale, dunque privo di poteri gestori, di una società di capitali titolare di altra farmacia. Per quale motivo, infatti, dovrebbe essere precluso a quest’ultimo la possibilità di effettuare un puro investimento finanziario?
In una scala di valori esercita certamente più influenza il socio unico di un esercizio farmaceutico, rispetto ad un suo magazziniere dipendente: in altre parole, quale aggressione potrebbe determinare tale soggetto all’interesse protetto dalla norma? Francamente non si comprende. Non è, infatti, da dubitarsi che un magazziniere di altra farmacia abbia un interesse minore, se non nullo, a condizionare (rectius a tentare di condizionare quale socio privo di poteri gestori) l’attività della farmacia posseduta dalla società di cui ha acquisito una partecipazione minima (ad es. dell’1%), rispetto a quello del socio unico di altra farmacia, che è pacificamente compatibile e titolato ad acquisire tale partecipazione, anche se di maggioranza!
Sembra, invero, maggiormente plausibile sostenere che il legislatore, nel tracciare due binari distinti, uno assistito da una sorta di presunzione iuris et de iure (l’art. 7 comma 2 secondo periodo) e uno da una sorta di presunzione iuris tantum[1] (l’art. 8), abbia riportato la precedente formulazione sub a) dell’art. 8 della L. 362/1991 nell’odierno art. 7, dimenticandosi di cancellarla dal novellato art. 8.
Ad ulteriore conforto, giunge utile altresì una recentissima ordinanza di sospensione cautelare, n. 3771 del 9.7.2021, con la quale il Consiglio di Stato ritiene che la “disciplina delle incompatibilità prevista dall’attuale art. 8 della L. 362/1991 (rectius, art. 7 comma 2) debba essere oggetto di più attenta disamina nel merito, anche alla luce di quanto ha chiarito la Corte Costituzione la nella recente sentenza n. 11 del 5.2.2020”.
In estrema sintesi, la vicenda che ha portato all’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato deriva dalla sentenza di accoglimento n. 106 del 9 febbraio 2021 con cui il TAR Marche ha annullato tutti gli atti presupposti e conseguenti all’aggiudicazione di una farmacia comunale – all’esito di asta pubblica – ad una SrL interamente posseduta da una casa di cura, in ragione (secondo l’assunto del TAR) dell’incompatibilità assoluta di cui all’art. 7 co. 2, II periodo (V. supra: “La partecipazione alle società di cui al comma 1 è incompatibile con qualsiasi altra attività svolta nel settore della produzione e informazione scientifica del farmaco, nonché con l’esercizio della professione medica”).
Il Consiglio di Stato, accogliendo la domanda di sospensione dell’esecutività della citata sentenza per “una più attenta disamina nel merito”, anticipa l’intenzione di esprimersi in senso complessivo sulla disciplina delle incompatibilità, seppur in presenza – come nel caso oggetto dello specifico episodio – di un’incompatibilità normativamente formulata in senso assoluto e inderogabile. Pare che il Consiglio di Stato, anche sfruttando l’occasione fornitagli da una vicenda in cui l’incompatibilità non sembra in discussione, voglia dirimere una situazione di incertezza.
Le esigenze percepibili sono quelle di una prossima rimodulazione del regime delle incompatibilità in senso maggiormente estensivo, in linea con l’attuale modello organizzativo che – come evidenziato dalla Corte Costituzionale – predilige oggi un’impostazione economico-commerciale di titolarità e gestione delle farmacie, con conseguente preclusione della verifica di compatibilità nei soli casi in cui siano riscontrabili poteri gestori e/o assenza di qualità del titolare della quota tali da estrinsecare un pericolo (anche presunto) per l’interesse tutelato.
In conclusione, in attesa di ulteriori pronunce nel merito, sulla scorta del principio individuato dalla Corte Costituzionale e dell’applicabilità trasversale dello stesso in conformità alla ratio legis, i sottoscritti ritengono che la verifica di compatibilità sia figurabile tanto nei casi sub c), quanto in presenza delle condizioni sub b) dell’art. 8, comma 1, L. 362/1991.
[1] Le presunzioni iuris et de iure sono quelle c.d. assolute, ovverosia che non ammettono alcuna prova in contrario, a differenza delle presunzioni iuris tantum, c.d. relative, che consentono all’interessato di provare il contrario di quanto si presume.